Nostra incantevole Italia by Pino Corrias
autore:Pino Corrias
La lingua: ita
Format: epub
editore: Chiarelettere
pubblicato: 2018-02-08T05:00:00+00:00
Caccia alle toghe rosse
Ma il sistema dei partiti sceglie l’altra strada, quella dell’opacità e dei veleni. I veleni accelerano la resa dei conti: i magistrati eroi diventano usurpatori, diventano «le toghe rosse» che vogliono eliminare l’avversario politico per via giudiziaria. Il 1992 diventa «l’anno del Terrore». Ciò che prima veniva preteso, l’epurazione dei corrotti, ora viene auspicato per i magistrati «manettari» e «mozzaorecchi», colpevoli di ogni crudeltà, ogni arbitrio, compreso quello della carcerazione preventiva usata come tortura per estorcere confessioni. Per distruggere gli indiziati. Fino alla macabra invenzione del «massacro di Mani pulite», contabilizzato in decine di morti ammazzati e di suicidi da giornalisti come Alessandro Sallusti, Paolo Liguori, Augusto Minzolini, Gianmarco Chiocci, tutti promossi, negli anni futuri, alla direzione di qualcosa.
Chi prova a rammentare i reati, accertati e non presunti, a citare le confessioni, le prove, i patteggiamenti, le sentenze, viene accusato di giustizialismo.
Dice Davigo: «Per i politici, dopo l’autodifesa di Craxi, divenne normale dire: “Se tutti rubavano perché ve la prendete con me?”. Che logica è mai questa? In Italia viene perseguito il 4 per cento dei furti, ma non mi è mai capitato che un ladro di motorini arrestato in flagranza abbia provato a difendersi dicendo: “Perché volete incarcerare me e non gli altri novantasei ladri in circolazione?”».
Nei cinque anni successivi, Davigo viene iscritto trentacinque volte nel registro degli indagati e per trentacinque volte le accuse si rivelano infondate. A Di Pietro toccano sessantaquattro esposti, tutti depositati nel Tribunale di Brescia, compreso quello minaccioso e falso di un paio di ex carabinieri, tali Giovanni Corticchia e Felice Strazzeri, che lo accusano di molti misfatti e reati: da un complotto antiberlusconiano in combutta con l’ex presidente della Camera, il comunista Luciano Violante, alle molestie sessuali ai danni di una giornalista. O le accuse di Vittorio Feltri, che ha già cambiato barricata, ma non furore. È diventato il nuovo direttore del «Giornale» di Silvio Berlusconi al posto di Indro Montanelli, appena licenziato. E scriverà di un fantomatico conto estero di Di Pietro, da cinque miliardi, che non si troverà mai. O l’offensiva di Giuliano Ferrara, che da ministro del primo governo Berlusconi proporrà la messa in stato di accusa dei magistrati per «attacco agli organi costituzionali» alimentando, sulle colonne del «Foglio» finanziato da Veronica Berlusconi, una violentissima campagna di stampa contro Di Pietro, definito «scespiriana baldracca», «troia dagli occhi ferrigni», «golpista», «protettore di biscazzieri», «uno che fa vomitare».
Di Pietro, all’ultimo atto del processo Enimont, lascia teatralmente la toga. È il 6 dicembre 1994.
Racconta: «Per anni mi hanno chiesto il motivo delle mie dimissioni, alludendo a chissà quali misteri. Ma c’è una sola verità: dovevo difendermi. E non avrei potuto farlo senza dimettermi dalla magistratura. Sarebbe stato impensabile andare la mattina nel Tribunale di Brescia a discolparmi, e al pomeriggio tornare in quello di Milano a indagare». E aggiunge: «Contro di me si sono mossi i servizi segreti su ordine di altissime cariche dello Stato, con il doppio scopo di fermarmi e di farmi pagare l’inchiesta».
Ventisette volte Di Pietro finisce sotto processo, ventisette volte verrà assolto.
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